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Black Mirror: a Happy New Year – Recensione senza spoiler (parte 2)

da 3 Gen 2018Culture, Presente0 commenti

Prima parte qui.

Ep. 4 – HANG THE DJ:

Dopo il cruento “Crocodile”, la serie prende una direzione più lieve. Un passo indietro rispetto alla crudezza e all’angoscia che ha da sempre contraddistinto la creazione di Charlie Brooker, e quattro passi avanti verso l’amore e la speranza. Questa volta dietro la macchina da presa c’è niente meno che Tim Van Patten, già regista di episodi di Game of Thrones, The Sopranos e The Wire. La splendida fotografia è opera di Stuart Bentley e la tecnologia presa di mira da Brooker sono le dating app.

Oggi basta completare il proprio profilo con foto, gusti personali e preferenze per ricevere una lista di ipotetiche anime gemelle. Come al solito, Black Mirror va oltre, mettendo in mano ai protagonisti dei dispositivi circolari che accoppiano due persone per un tempo stabilito, che varia da poche ore a diversi anni, curando tutti i dettagli dell’incontro.

Cosa vuol dire? Avete presente quando da piccoli vi chiedevate chi sarà la persona con cui trascorrerete il resto della vita? Il dispositivo in questione lavora esattamente su questo principio, architettando diversi appuntamenti di fila affinché si raggiunga il match perfetto. Una condizione che però impone il più delle volte spiacevoli compagnie giustificate solo dalla ricorrente frase “Tutto succede per un motivo”. Un mantra che i protagonisti, due splendidi ragazzi interpretati con perfetta sintonia da Georgina Campbell e Joe Cole, proprio non riescono ad accettare.

Ancora una volta la storia d’amore ribelle e spontanea, più forte di ogni muro alzato intorno a noi dagli altri, fa breccia nei cuori degli spettatori più sensibili; l’episodio infatti è fra i più chiacchierati in rete. Non mancano però i tipici toni orwelliani, che si ripresentano nel finale, per chiudere quello che sembra il mix perfetto fra “The Truman Show” e “San Junipero”.

Ep. 5 – METALHEAD:

Immagino Charlie Brooker seduto sulla sua comoda poltrona, davanti al pc con la webcam scoperta, sorseggiando della Coca Cola:

Ok, devo cercare di rientrare nel budget, che cazzo mi invento? Scrivo un cortometraggio? Niente location futuristiche, niente astronavi, niente arcangeli. Cos’è andato di moda recentemente?
Supereroi? Hm… troppo commerciali; biopic? Nah, non scrivo per gli Oscar; gli anni ‘80? Cazzo, ho già fatto San Junipero. E poi c’è Stranger things… No no… Mad-Max? Mad-Max cazzo, sì!”

Prende il cellulare, sicuramente un iPhone, poi chiede: “Siri? Chiama Louise Sutton (produttrice)”.
Dopo qualche secondo di attesa: “Sutton non è raggiungibile, lasciare un messaggio”.

“Uhm, Louise? Ciao tesoro, finalmente ho avuto l’idea per risparmiare un po’. Facciamo una storia leggermente più semplice del solito: un futuro dispotico, desolato, alla Mad-Max, che ora è tornato di moda. I protagonisti si ritrovano in questa terra popolata da segugi robotici, che sparano e guidano macchine. Lo so che sembra folle ma seguimi. Semplicemente mostriamo a inizio episodio la pericolosità di questi cani guerrieri di metallo e facciamo un chase movie action thriller alla ‘Fury Road’ ma con una cristiana e un cane. Tre veicoli, tre personaggi, due location, il resto lo giriamo in montagna e nelle steppe, che non ci caca il cazzo nessuno. E sai cosa? Hai visto quant’era bello ‘Fury Road’ in bianco e nero? Ecco, noi lo giriamo direttamente in bianco e nero! Facciamo un cristo di bianco e nero. Chiamiamo David Slade che ci monta una regia al cardiopalma che fa trattenere il fiato dall’inizio alla fine e poi ci rimettiamo i finali nostri, quelli belli pessimisti. In più lo facciamo durare leggermente meno; non la tiriamo per le lunghe che rischiamo che diventi monotono e palloso, giusto una quarantina di minuti, che non se ne accorge nessuno. Allora… Dimmi che ne pensi e mi metto in moto. Un bacio!”

Secondo voi avrei scritto tutto ciò se la sorte dell’episodio fosse stata diversa? Perciò ecco come immagino sia finita, sempre nella mia testa:

– “Hey Charlie?”
– “Louise, cara! Hai ascoltato?”
– “Sto chiamando Slade, prepara il resto.”
– “Buon Natale Louise!”
– “Buon Natale Charlie!”

Ep. 6 – BLACK MUSEUM:

Tutto comincia con una strizzata d’occhio al western: i campi lunghi leoniani nel deserto introducono la protagonista a bordo di una vecchia Chrysler. Sosta a un distributore, scende dall’auto e la mette in carica con dei pannelli solari. Per passare il tempo si dirige verso uno strano museo pseudo saloon, con le cinghie dello zaino che suonano come le selle di un cavallo da monta e gli stivali da sceriffo. Ovviamente non a caso, l’ultima puntata è un revenge movie sotto ogni aspetto e non poteva essere raccontato nel modo migliore.
Ci troviamo di fronte a un season finale che ricorda lo standalone di Natale, con più storie a comporre il puzzle.

La protagonista, la giovane Nish (Letitia Wright) viene accolta da un eccentrico e superlativo Douglas Hodge, che interpreta Rolo Haynes, lo schizzato proprietario fiero della sua creatura: il Black Museum. Entriamo nella sala principale, piena di reliquie fedelmente custodite, e da subito capiamo che non sono semplici souvenir, ma tasselli e componenti di un puzzle ancora più grande: molti sono oggetti apparsi in altri episodi di Black Mirror. Per i nostalgici e gli amanti della serie, di quelli che ne vorrebbero sempre di più, sarà una bella e una brutta notizia allo stesso tempo. Siamo curiosi di sapere cosa ci fanno tutti quei pezzi lì dentro, come la protagonista, che subito si interessa.

Rolo inizia il racconto delle tre storie, vissute in prima persona, legate ad altrettanti oggetti e la narrazione, non a caso, comincia con la dipendenza. Una dipendenza molto, molto rivoltante, di quelle a cui ci ha abituato la serie. Chi fino ad ora ha denunciato la mancanza dello storico cinismo di Black Mirror dovrà ricredersi. Da qui un crescendo, che va a mescolarsi sempre di più con la storia del museo, sempre di più con la storia delle reliquie. Black Mirror è tutto qui dentro, nel Black Museum, e sembra che Charlie Brooker, nel finale, abbia voluto suggerirci la sorte stessa della serie tv.
Che sia un avvertimento?

Così termina la quarta stagione, tra le urla strazianti dei protagonisti di Black Museum, che ci restituiscono il malessere a cui ci aveva abituato Brooker. Peculiarità che non possiamo attribuire al resto degli episodi, che sanno abbastanza di già visto. Un totale fallimento? Assolutamente no, il livello tecnico rimane altissimo a scapito di idee poco brillanti e innovative, ma ci sarà abbastanza pane sia per i denti dei neofiti che per quelli dei fan di vecchia data.

Paolo Carabetta

Paolo Carabetta

Graphic Designer e Videomaker per Web, Cinema e Tv. La legge di Murphy è la mia legge.

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