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Lungo la riva

da 23 Dic 2018Creazioni0 commenti

Su di una piccola collina, in una campagna sperduta della Toscana, in un altrettanto piccolo convento, delle tranquille e pie suore vivevano con ritmi quotidiani cadenzati in funzione delle regole monastiche, costruiti attorno alla preghiera, seguendo un modello di vita improntato alla sussistenza. Preparavano da mangiare e pregavano, si lavavano e pregavano, si divertivano fra loro con semplici e bambineschi giochi e, ovviamente, pregavano.

La guerra che le circondava sembrava non toccarle minimamente, se non fosse per un semplice e triste particolare. Vicino al loro convento, che sbucava timidamente da quella collina, scorreva un fiume, se tale si può definire, dato la sua piccola portata. In quel fiume, per giorni e notti, passavano, cullati dalle calmi e dolci onde, molti corpi. Corpi di soldati che oramai non avevano più di che combattere e sparare. Questo non stupiva, non sconvolgeva molto le donne, che essendo in tempo di guerra comprendevano bene la situazione e pregavano.

La primavera scorreva pesantemente e disperatamente quell’anno, e le suore, sottomesse a uno stile di vita calmo e contemplativo, passavano i giorni in quella campagna piccola, in quel convento piccolo. Insomma in quella loro vita piccola e deprimente, il fiume lento faceva ondeggiare cadaveri su cadaveri, che a volte, quando era possibile, le suore raccoglievano per dare loro una giusta sepoltura, e le chiare e splendide acque erano diventate di un colore rosso, ma non di un rosso acceso di sangue, ma di un tenero rosso che scintillava sotto il sole.

I giorni passavano, e piano piano le rive del fiume si riempivano di croci, senza nomi né date, croci fatte con dei semplici ciocchi di legno, che potevano tranquillamente volare via se fosse giunta una ventata solo un poco più forte. Quel lavoro da becchini certo non si addiceva per niente a quelle pie donne, che, o troppo giovani o troppo anziane, risultavano buffe e fuori posto in quel contesto così macabro e deprimente. Alcune delle più giovani e esili spesso cadevano nell’acqua sporca e rossa nel tentare di prendere un corpo ben più grosso di loro. Piccole donne che affrontavano enormi carcasse, le maggior parti gonfie e pregne di acqua, con qualche alga appiccicata.

Ma la guerra oramai andava avanti da parecchio tempo, e quella pratica era diventata una specie di routine, una pratica a modo suo religiosa. Le suore si dirigevano al fiume vuote negli occhi, e ritornavano al convento ancora più svuotate. L’estate sembrava sempre più imminente e il solleone con il suo caldo torrido spaventava le donne, preoccupate della reazione che i corpi avrebbero potuto avere con il caldo afoso. L’estate sembrava sempre più imminente. Sembrava, perché in realtà non era così, anzi, la calda stagione era lungi dal presentarsi con tutti i suoi problemi; ergo, era solo un lontano futuro di cui preoccuparsi.

Al chiarore di una bellissima alba, le acque del fiume si aprivano tra il volto di un bellissimo corpo. Le onde, affascinate da quel bel corpo morto, lo portavano in una specie di processione: quel bel volto con dei fluenti capelli biondi, una fronte dura ma ampia, e una barba non curata che no, non danneggiava per niente il volto ma che al contrario gli donava quel non so che di trascurato, che si conciliava benissimo con quell’espressione così da intellettuale. Gli altri cadaveri sembravano impallidire di fronte a quella specie di dio greco morto, la cui bellezza veniva esaltata dal fiume e da quell’acqua rossa brillante.

L’alba si specchiava su tutta la natura, sul giovane soldato, e il tutto sembrava quasi un dipinto di Dio. Una giovane suora, che si era alzata la veste fino alle ginocchia per facilitare lo stare in acqua, vide in lontananza questo spettacolo, ma non capì subito che cosa aveva di fronte a sé. Si piegò in avanti, strizzò un poco gli occhi e con la mano destra si parò dal sole, e solo allora lo vide. Presa da una forte eccitazione, le sue ginocchia tremarono così tanto da farle perdere l’equilibrio; agitò le braccia goffamente in aria e cadde. Appena si rialzò vide accanto a sé il giovane soldato; lo afferrò velocemente e lo trascinò sulla riva. Sulla fangosa riva la ragazza esaminò il corpo, non si fece prendere da alcuna emozione, era troppo sconcertata e non sapeva cosa fare. Vide che il corpo era ancora in buone condizione e pensò subito che il soldato non fosse morto da tanto. Era davvero un bel cadavere. Gli toccò i capelli, poi si avvicinò il più possibile al grande petto del soldato e sentì che quello si alzava di un poco, lievemente, quasi impercettibilmente. Però si alzava e questo stava a significare che il soldato era ancora vivo. La suora premette le sue mani fortemente sul petto del giovane, ma questo si rivelò un’azione inutile, e allora pudicamente e velocemente appoggiò le sue labbra su quelle del ragazzo per potergli dare dell’ossigeno. Il respiro durò pochi secondi, ma la ragazza sentì un vento gelido che gli passò per la gola e gli riempì il corpo. Pensando di aver fatto qualcosa di utile, a suo modo, chiamò le sorelle, le quali accorsero velocemente per vedere l’accaduto. Tutte rimasero incantate a guardare il giovane, poi insieme lo portarono al convento con grande fatica e, se vogliamo essere sinceri, anche con una leggera malizia. Diciamo che se una mano sorreggeva, l’altra più gaudente lodava il creato di Dio.

La madre superiora ovviamente non poté negare l’aiuto a quel povero bisognoso, e acconsentì nel farlo rimanere nel convento, dandogli una camera. Precisamente lo misero nella camera più lontana da quelle delle suore. Ogni giorno qualcuna di queste, ragazza o vecchia, si prestava all’aiuto del giovane, che se pur dormiente pareva essere vigile, come mostrava qualche stretta di mano e qualche mugugno. Le suore lo lavavano, lo curavano mettendogli in vena qualche medicina estratta da non si sa quali infusi e intrugli. Intanto i cadaveri sulle rive del fiume aumentavano, quasi fino a formare una diga.

Una giovane ragazza, precisamente la suora che prese il giovane dalle acque quella passata mattina, sgattaiolò una notte fuori dalla sua cella. A passi veloci e pacati percorse tutto il marmoreo corridoio, gelandosi le punte dei piedi, arrivando alla stanza del ragazzo. Affascinata dal volto di lui, immerso nel sonno e nella luce lunare che esaltava il suo pallore così vivo e i suoi biondi ciuffi, la suora si avvicinò al suo letto. China su di lui, con un respiro affannato, gli passò la piccola mano sulle guance. Titubante avvicinò la mano ai suoi occhi, curiosa di vedere se quel principe avesse gli occhi azzurri oppure no, ma si bloccò. Avvicinandosi sempre di più al bell’addormentato lo baciò. E fu così per altre tre volte, poi nervosamente, con le interiora che le tremavano tutte, scappò velocemente dalla sua stanza sbattendo la porta, che rimbombò per tutto il convento.

Quella notte la giovane suora la passò penosamente: sudando freddo con crampi allo stomaco così dolorosi da farla piegare. Si girò e rigirò nel letto più e più volte, rantolando, presa da sensi di colpa tali da farla soffrire atrocemente. Si chiese il perché del suo peccare, del suo agire male, e si chiese molte volte quando quella notte sarebbe finita. Il giorno si levò sul convento e le pie incominciarono la loro classica vita, ma non la giovane suora.

La ragazza fu trovata con i denti serrati e le lenzuola strappate, fredda e rigida nel suo letto. Non fu pianta a lungo dalle altre suore, dedite a riservare attenzioni ben più piacevoli al giovane soldato. Tutte, e dico tutte,

le suore si recavano nella sua stanza. Giovani, belle, brutte, vecchie e grandi, andavano spesso a pregare per e con quel ragazzo, chiudendosi in una religiosa contemplazione privata e, onde evitare disturbi e distrazioni varie, si chiudevano a chiave. Tutte sentivano, mano mano che andavano avanti, qualcosa di strano. Non si sa che cos’era. Forse una malattia, o un senso di peccato. Era forse il timore di Dio. Si sentiva che la loro vita era cambiata, in bene o in peggio non si sa, non erano a loro decidere questo. Il loro corpo, il loro pensiero non era lo stesso. Ma cosa mandava loro quella sensazione, un Dio invisibile o loro stesse? Era un vero Dio o la loro paura di Dio? Ma oramai il dado era tratto, la mela morsicata. Che fare? Continuare o cessare? La rivincita sulla loro vita era iniziata e cessarla così sarebbe stato come sottomettersi a una loro costrizione stupida e irrazionale, meglio continuare.

E così per notti e giorni, albe e tramonti, il corpo veniva toccato, addirittura amato. Tra malori generali, la rivoluzione continuava imperterrita di fronte a pianti, crisi nervose e notti maledette. La madre superiora una notte si recò nella stanza del ragazzo. Anche lei, vecchia e vissuta, decise di toccare il giovane, il vivo che ancora doveva vivere; e mentre queste epoche si unirono, la luna si bloccò insieme alle sue grigie nuvole e dal convento si alzò un urlo generale che ammutolì la notte. Le prime ore dell’alba illuminarono il convento e tutto quello che c’era al suo interno. Volti pietrificati con stampata la sofferenza e corpi rigidi, lenzuola strappate e corpi sfracellati dopo essere caduti rigidi sul marmo freddo.

Da quel letto, in quella stanza lontana, si alzò il soldato che, con sguardo freddo e duro, con i suoi occhi azzurri, osservava quelle donne di tutte le età che fredde e rigide affollavano  il piccolo convento, e a passo lento, quel dio greco della morte, statuario, abbandonò quella piccola e umile casa e quelle donne ora morte. Andò per il fiume, si avvicinò alla croce della giovane suora che una mattina lo aveva preso tra le sue braccia e, regalandogli quello che lei voleva, un suo sguardo, se pure distratto e indifferente, passò oltre. Si mise con le spalle alla rossa corrente e vi ci si buttò dentro. Le onde lo presero al volo e lo riaccompagnarono in una nuova processione spettacolare, chissà verso dove.

Ilir D. Barroi

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