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24 fotogrammi – Frank

da 31 Mag 2016Culture0 commenti

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Bisogna ammettere che Lenny Abrahamson, il regista di “Frank”, ha avuto un bel coraggio.

Woody Allen nel 1997 gira “Harry a Pezzi”. Nel cast spicca, fra gli altri, Robin Williams, uno degli attori più famosi degli ultimi trent’anni, al culmine della sua carriera. Praticamente un successo annunciato. Il suo personaggio, però, nel film appare perennemente fuori fuoco a causa di una qualche metaforica malattia “alleniana”.
Lenny Abrahamson nel 2014 gira “Frank”: prende Michael Fassbender, il cui solo nome attrae al cinema migliaia di persone (e milioni di dollari), e gli fa indossare un mascherone da pupazzo per tutto il film.
Ma un conto è chiamarsi Woody Allen, un altro è chiamarsi Lenny Abrahamson.
Una mossa coraggiosa, forse anche troppo. Una mossa che sbatte in faccia al pubblico che “Frank” è un film diverso, che noi cineasti indipendenti siamo i più fichi di Hollywood, prendiamo un attore commercialissimo e non te lo facciamo mai vedere in faccia, altro che quel nano sfigato con gli occhiali. Un esibizionismo alternativo che il 99% delle volte porta solo disastri. E invece, non solo bisogna ammettere che Lenny Abrahamson ha avuto coraggio, ma anche che avuto ragione. Tantissima ragione. Perché quella di Frank, il “personaggio mascherato” che dà il nome al film, è una bellissima storia, raccontata in modo perfetto e tecnicamente pulitissimo. Ma andiamo con ordine.
Prima ancora del “pupazzone” nel film c’è Jon, tastierista e cantautore da cameretta, che in un grigio pomeriggio inglese si imbatte nei “Soronprfbs”, l’onomatopeica band capitanata da Frank. Il loro, di tastierista, ha appena tentato il suicidio e c’è un concerto da salvare. Jon si unisce al gruppo e parte per un viaggio pazzo e strampalato che rivelerà, a lui e alla band, tutte le conseguenze del successo.

Frank è il cantante e l’anima dei “Soronprfbs”. La sua indole geniale e psichedelica influenza il sound sperimentale del gruppo. Dal punto di vista musicale non manca qualche frecciatina ad alcune band e al snobismo, che si incarna nel personaggio di Clara, la “sintetizzatrice” del gruppo, interpretata magistralmente da Maggie Gyllenhaal. I “Soronprfbs” passeranno mesi isolati dal mondo per registrare il primo album del gruppo. Emergono qui l’accurata e profonda analisi psicologica dei rapporti tra i diversi membri di una band e le conseguenze che l’arte e la creatività hanno sulle persone. Il genio di Frank si manifesta in tutte le sue contraddizioni e la coscienza artistica diventa qualcosa di pericoloso, capace di creare capolavori, ma allo stesso tempo di portare all’esaurimento nervoso. O ancora peggio.
Frank si ritrova stordito e sorpreso non appena Jon gli fa notare che qualcuno ascolta la loro musica. I “Soronprfbs”, relegati a un anonimato a tratti voluto, si ritrovano a fare i conti con il successo, con l’essere a un passo dalla notorietà. Da lì in poi, tutto comincia a collassare su se stesso.
La protezione dal mondo esterno, che Frank si era imposto, rivela tutta la sua inutilità. Il cantante impazzisce e rimane solo, mentre Jon cerca di salvare il salvabile. La musica passa in secondo piano, tutto si sposta sul lato umano. Il film prende una piega quasi drammatica con un finale ancora una volta coraggioso e didascalico.
Frank è una maschera che tutti quelli intorno a lui vorrebbero avere. Un enorme faccione pieno d’aria. Vuoto e inutile. Inesistente se non perché cela un genio artistico che deve rimanere nascosto. È incredibile il numero di significati che Michael Fassbender riesce a trasmettere con il corpo sotto quel mascherone monoespressivo e quella voce robotica. Quel mascherone plasticoso che lo rende tanto speciale agli occhi degli altri.
La verità è che Frank ha bisogno di quella maschera, altrimenti, tutto ciò che lo circonda, sarebbe troppo. Vale per tutti, ma Frank, nascondendosi, lo ammette. Per questo è diverso. Apparentemente, invece, è uguale a tutti gli altri membri dei “Soronprfbs”: geniali insieme, malati da soli.

“Frank” tenta di insegnarci tante cose. E, grazie a una sceneggiatura ben scritta, una regia invisibile e un cast di alto livello, ci riesce. Lenny Abrahamson e compagnia hanno vinto una grande scommessa. La piccola Hollywood ha sfornato un altro film destinato a diventare un cult del cinema indipendente.

 

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