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La playlist continuava ad andare con le sue tristi canzoni che rappresentavano appieno quella situazione… che rappresentavano appieno il mondo di Strambo.

Con un colpo di reni si alzò dal suo letto, si guardò un poco attorno e si toccò la schiena. Schifo. Era tutto sudato e decise di cambiarsi. Buttò per terra la sua camicetta barocca, prese dall’armadio un asciugamano giallo e se lo passò per tutta la schiena. Si fermò a scegliere quale altra camicia poteva mettersi. Optò per una camicia rossa a righe bianche orizzontali, che dicevano lo ingrassasse, ma per lui magro scheletrico che pesava sessanta chili bagnato non era un problema. Si mise le cuffie comprate dai cinesi sotto casa, che molto probabilmente si sarebbero rotte in pochi giorni, indossò dei pantaloni bianchi e poco prima di uscire dalla sua stanza si girò a guardarla. Con gli occhi vuoti  la vide per quello che era: una stanza piena di ricordi e sentimenti e avvenimenti che pareva avere più di cento anni, più di cento vite. Poco prima di aprire la porta Strambo si chiese: ”Chissà quanti Strambo hanno vissuto la mia stanza? E chissà quanti ancora la vivranno? E chissà chi sarà lo Strambo che la distruggerà?”.

Stanco e un poco emozionato afferrò il pomello dorato che divideva lui e il mondo, e con incertezza aprì la porta. Beh, ecco, nulla di speciale, vide solo casa sua. Ancora una volta… casa sua. Andò in camera dei genitori, si avvicinò al mobile dove di solito i genitori nascondevano i soldi. Camicia blu, camicia rossa, jeans blu scuro ed eccoli lì sotto. Li prese senza neanche contarli. Erano tanti, si vedeva.

La casa era vuota, o forse era lui che non voleva vedere nessuno. Arrivato all’ingresso prese le chiavi della macchina del padre, il documento e altri spiccioli che aveva trovato lì per lì. Era arrivato fin lì e niente e nessuno aveva provato a fermarlo.

Prese l’ascensore con tutto nelle sue tasche: in quelle dei pantaloni soldi e chiavi, in quelle della giacca cellulare e documento.

Durante il piccolo viaggio in ascensore Strambo pensò che forse avrebbe incontrato la morte o i genitori nell’atrio del palazzo, o che l’ascensore si sarebbe potuto staccare e fargli fare una caduta verso la fine. Beh, che strana bara che sarebbe un ascensore: con quei bottoni in braille con i numeri ormai invisibili, e quella luce fredda che avrebbe potuto illuminare bene il suo corpo morto, se la caduta fosse avvenuta, per non parlare dello specchio che avrebbe duplicato tutto: doppio schifo, due morti, doppio sangue, chissà se pure doppia tristezza…. Ma come già detto, il tutto non avvenne; l’ascensore compì il suo piccolo viaggio che catapultò Strambo in un piccolo reale inferno: Roma d’estate.

Ilir Barroi

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