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24 fotogrammi – Il finale de La Dolce Vita

da 8 Apr 2019Culture0 commenti

È l’alba. Un gruppo di persone approda su una spiaggia dopo aver trascorso una notte brava. Tra questi c’è Marcello (Marcello Mastroianni) un uomo che ormai sembra inghiottito dal vortice della perdizione e dello squallore borghese degli anni ‘60. Alcuni pescatori portano a riva una specie piuttosto strana di pesce che associano a un mostro. Tra il forte vento e il rumore delle onde, echeggia la voce debole e fragile di Paola, che lavora in una trattoria di mare come cameriera e che Marcello ha identificato come un angelo. Paola cerca il modo per dialogare con Marcello, ma il forte rumore del vento e delle onde sovrasta le voci dei due personaggi. Marcello, sconfitto, si arrende e se ne torna da dove è venuto, tra lo squallore vile della classe borghese.

Sul finale de “La Dolce Vita” di Fellini, uno dei film più importanti della storia del cinema Italiano, sono state scritte numerose pagine ricche di interpretazioni di tutti i tipi. Il momento in cui Marcello e Paola provano a parlarsi, per esempio, pone l’accento sull’incomunicabilità e l’alienazione (temi molto cari ai registi di quel momento storico), il tutto enfatizzato dal fiume melmoso e sporco che si frappone fra i due personaggi. Paola rappresenta inoltre una sorta di guida purificatrice del mondo corrotto da cui viene Marcello, una strada alternativa per sfuggire al marcio morale, che però Marcello si rifiuta di percorrere.

Secondo un’interpretazione attendibile, il film di Fellini sarebbe un viaggio nei gironi infernali della Roma degli anni ‘60. Il finale, ambientato su una spiaggia, potrebbe essere la metafora di un purgatorio dove intraprendere un processo catartico, che però non viene preso in considerazione. Il mostro marino spiaggiato recuperato da alcuni pescatori sembra assomigliare a una razza o a una manta che, secondo alcuni racconti, Fellini avrebbe incrociato in una delle sue tante passeggiate sulle spiagge di Rimini. Il pesce è circondato da molteplici interpretazioni: potrebbe essere anch’esso utilizzato ai fini di porre l’accento sul tema dell’incomunicabilità dal momento che è l’animale muto per eccellenza; oppure potrebbe essere ricondotto a una simbologia cristiana dal momento che pesce in greco si dice IXTHYC (ichtùs). Disposte verticalmente, le lettere di questa parola formano un acròstico: Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr e cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Tale interpretazione trova riscontro anche dalle frasi pronunciate dai pescatori che ci riportano alla mente una dimensione biblica (“è morto da tre giorni”). E ancora la frase pronunciata da Marcello, che, fissando l’occhio spalancato del “mostro” dice “questo insiste a guardare”, sembra alludere a un occhio inquisitorio e giudicante che osserva tutto (appunto un occhio divino).

Ma sul finale del film di Fellini potremmo scomodare anche Jung, una delle principali figure intellettuali del pensiero psicologico e psicoanalitico del ‘900, che considerava il pesce un simbolo dell’inconscio, e quindi riportare la scena conclusiva a una dimensione allucinatoria oppure onirica.

Secondo lo studioso Steven Gandol, il cadavere del mostro può essere interpretato anche in relazione allo scandalo Montesi: un fatto di cronaca nera avvenuto in Italia il 9 aprile 1953, inerente alla morte della ventunenne Wilma Montesi, ritrovata senza vita sulla spiaggia di Torvaianica. Fu uno scandalo enorme che coinvolse la politica e lo spettacolo e che ebbe molta risonanza mediatica. Le interpretazioni sono tante e controverse, ma l’unica cosa certa è che “La dolce vita” di Federico Fellini rimane un film senza tempo da vedere e rivedere.

Mario Vai

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