Sblocchi il telefono, scorri la home, vedi l’icona di Instagram, la clicchi.
Quante volte ti è capitato di ritrovarti in questa sequenza guidata dal tuo dito invece che dalla tua mente? Ti sei mai accorto di come l’interfaccia grafica del tuo smartphone ti abbia portato a mutare abitudini di natura mentale in natura meccanica? Altri miliardi di persone come noi usano ogni giorno i più disparati dispositivi e, se siamo diversi su tante cose, una di quelle in cui non lo siamo è il nostro approccio alle UI (User Interface), le interfacce utente, e di conseguenza il nostro rapporto con loro.
Siamo arrivati al giorno d’oggi dove vengono esauriti stipendi interi allo scopo di poter comprare un dispositivo dall’interfaccia colorata, in grado di conferire lo status sociale di “individuo superiore”, ma fino a 30 anni fa le persone associavano tutt’altro tipo di “status” alle macchine.
Siamo negli anni ‘60 in piena corsa allo spazio: le persone sono sempre più fomentate al pensiero della loro nazione coome colonizzatrice di zone sconosciute. I poli d’attrazione del momento sono ciò che le masse possono osservare: giganteschi velivoli in grado di lanciare esseri umani al di fuori del pianeta a velocità mai viste prima; giovani eroi astronauti che si immolano per l’evoluzione dell’umanità; oppure, ancora, l’esaltazione dell’élite governativa che “riesce a surclassare il nemico”.
Alla fine però, nessuno si rendeva conto di come tutto ciò fosse realmente possibile, di come certi viaggi possano essere progettati e realizzati: il grande merito dei calcolatori era sì conosciuto, ma realmente non considerato. La loro valenza agli occhi dei più non era né incredibilmente positiva né tanto meno negativa: erano strumenti di supporto, strumenti “neutri”.
Ma allora da dove è nata l’inquietudine?
Si dice che il cinema sia il miglior mezzo di comunicazione: mai più grande verità fu detta. Non sono serviti 10, 20, 30 film per riversare nella gente una paura irrazionale legata alla tecnologia; è stata necessaria una singola pellicola: “2001: Odissea nello spazio”.
Nel capolavoro di Kubrick, il supercomputer di bordo HAL viene rappresentato come il più grande antagonista degli astronauti in missione, intento a uccidere tramite la sua intelligenza superiore tutti gli occupanti della nave. Fu proprio questa intelligenza sovrumana, questa logica “infallibile” a diffondere la paura delle macchine fra le persone comuni. Si cominciò a discutere di vari argomenti a sfavore dei computer come il rimpiazzo in ambito lavorativo, la sensazione di impotenza verso un sistema de-umanizzato e le insicurezze riguardo l’instaurazione di un governo digitale.
La vera angoscia nacque dalla paura dell’ignoto, del non riuscire a comprendere il funzionamento intrinseco del computer, relegato al loro essere menti artificiali simili a noi ma molto diverse.
Questo fu lo standard per tutta la fine del ‘900, soprattutto con l’arrivo nelle case dei primi computer casalinghi o “home computer”. Tanto amati dai giovani i più conosciuti Commodore 64, ZX Spectrum e Amiga misero faccia a faccia le persone comuni con quelle che erano le interfacce a riga di comando, tutto meno che intuitive: una serie di caratteri monocromatici incomprensibili. Questo non fece che nutrire quell’angoscia, permettendo solo agli addetti ai lavori o agli appassionati di capire cosa quegli agglomerati informi di fragile plastica bianca avessero realmente da offrire.
Ma il lato estetico contava come oggi?
Se nei tempi attuali all’uscita di un nuovo cellulare si discute più del suo design che delle sue funzioni, ai tempi questo problema le persone non se lo ponevano. Il computer non era un “trofeo sociale” da esporre a quanta più gente possibile: era un qualcosa da nascondere, uno strumento sì utile ma non dalla funzione di vanto; l’aspetto estetico perciò non era davvero contemplato.
Divenne usanza dedicare una stanza adibita solo all’utilizzo del terminale (“la stanza del computer”) per celare tutto al suo interno. Chi sapeva armeggiare con questo tipo di macchine veniva etichettato in maniera dispregiativa, come “il/la ragazzo/a del computer”, di fatto andando a relegare a un margine isolato della società una fascia molto ampia di persone con una semplice passione.
Ma come siamo arrivati a vivere in un contesto storico opposto a quello degli anni ‘60-’80?
Tutto cambiò quando nell’84 venne rilasciato da Apple il Macintosh (oggi conosciuto come Mac).
Fu il primo computer destinato alle masse ad offrire un’interfaccia grafica a finestre come le utilizziamo ancora noi oggi (GUI) abbandonando la riga di comando e lasciando che le persone, poco a poco, si avvicinassero ad un qualcosa di comprensibile, di familiare. Il Macintosh era uno strumento che poteva essere utilizzato senza difficoltà da chiunque, anche da chi avesse la più totale ignoranza in campo informatico.
Per la prima volta permetteva alla gente di poter eseguire azioni senza doverle pianificare in anticipo, permettendo la nascita, di fatto, di quelle che noi oggi conosciamo come “routine”. Questo permise di velocizzare i flussi lavorativi, a differenza delle CLI (Command Line Interface), con le quali ogni singolo carattere andata pianificato prima di essere pigiato sulla tastiera. Chi prima rimase ancorato per paura o diffidenza a supporti analogici come carta e penna, ora poteva permettersi di regalare una “bicicletta” alla propria mente.
Da quel momento in poi tutti i grandi produttori seguirono il Mac: le interfacce grafiche si migliorarono sempre più rapidamente diventando, di fatto, un’abitudine agli occhi di chi le usava e di chi ne aveva anche solo sentito parlare.
Molti di noi sono nativi delle UI, siamo cresciuti/e con loro e non possiamo immaginarci nemmeno lontanamente come sarebbe stato l’utilizzo del nostro smartphone se non fossero nate le finestre. Usare un tablet, cellulare o computer moderno significa ricordare che prima di essere arrivati a preoccuparsi dell’estetica di un’icona, si è passati in anni di difficoltà dove le uniche interfacce erano delle parole verdi su sfondo nero senza apparente senso.








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