Quella delicatezza d’animo che, come d’incanto, inizia a fluttuare in stati di pura gioia e prosperità, come definirla? Come esprimerla con dei vocaboli? Come trasmetterla?
Sia Chopin che Monet, per quanto distanti come corrente artistica, nonché maestri di due mezzi espressivi diversi, sembrano evocare nelle loro opere la medesima condensa di sentimenti. E i vapori che generano questa condensa altro non sono che un atteggiamento di rifiuto, di indifferenza, verso ogni condizionamento politico, storico o sociale. È un toccare, attraverso i propri sensi, quell’aria di infinito che possiamo scrutare in ogni strada, in ogni bivio, in ogni pozzanghera, in ogni riflesso: in ogni incommensurabile manifestazione della vita. Possiamo esperire lo schiudersi di questa purezza vitale solo quando ne accogliamo l’esistenza come un fenomeno semplice e diretto, scevro dai vani tentativi di realizzare degli ideali.
Nei Notturni di Fryderyk Chopin, specie in “Op.9, N.1”, nonostante l’adesione dell’autore al movimento romantico, si può riconoscere, nelle note che lo compongono, un enorme tocco di malinconia: ma una malinconia non nevrotica o ossessiva, bensì leggera, consapevole di sé stessa, indice di un totale abbandono alla vita. Per consuetudine, nel Romanticismo sono sempre emersi personaggi o stati d’animo legati a un ideale con cui potersi identificare, quasi per distogliersi dalla piattezza dell’esistenza. Tutto ciò, però, ha sempre poi portato a forti dolori e sofferenze, a una mancata accettazione di cosa la vita realmente sia, come nel caso del giovane Werther, protagonista del romanzo epistolare di J.W. Goethe. Chopin sembra inaugurare la decadenza di questi ideali, conservando sempre l’ossessione per essi, eppure smascherandone il forte senso di vaghezza e inconsistenza. L’autore ha nostalgia dei suoi orizzonti perduti, li osserva, crea con loro un dialogo, senza però lasciarsi struggere da essi, poiché egli, attraverso le sue note, li invita a osservare l’immenso spettacolo della semplicità della vita, del vuoto che misteriosamente ci avvolge, compassionevole, ogni giorno.
Ciò che Chopin aveva intuito, con sguardo reduce e nostalgico, Claude Monet lo realizza definitivamente con un’opera totalmente inaspettata per l’epoca. Il mondo dell’arte, abituato a simboli, spettacolarizzazioni e cura dei dettagli, si ritrovò ad accogliere una tela intenta quasi a beffeggiare queste doti dell’espressione pittorica. Tutto ciò che nella vita è immediato e fugace, Monet riesce magnificamente a sintetizzarlo con “Impression, soleil levant”. Per l’artista era importante far capire che la libertà, la gioia e le sensazioni di stupore, non si potranno mai raggiungere attraverso ideali, religioni, simboli o situazioni struggenti. Nella ricerca frenetica di simili traguardi, ci siamo dimenticati della bellezza di camminare lungo il porto e fermarsi a osservare il sole nascente che genera patine luminose sulla superficie dell’acqua, che scorre con dolcezza e solennità. L’accoglienza sprezzata che ricevette l’opera si può forse ricollegare a un senso di vertigine che molti artisti o direttori di mostre avvertirono, a causa del loro identificarsi con ideali fin troppo ambiziosi. Monet fu uno dei primi a capire che la vera rivoluzione dell’arte, ma anche dell’uomo in generale, non stava nel raggiungere un particolare livello di perfezione formale o spirituale. La vera rivoluzione è il ritorno ai primordi; è nella dolce contemplazione di un istante fugace, di un orizzonte ammaliante proprio perché nebuloso e privo di un particolare significato: libero ed eterno.
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