Di Caparezza mi ha sempre colpito l’umiltà. E l’umiltà è sintomo di intelligenza e di cultura, qualità che il buon vecchio Michele Salvemini, in arte Caparezza, ci ha abbondantemente dimostrato di avere, nella sua ormai ventennale carriera musicale.
Con il primo album del 2000, intitolato “?!”, Capa mostra le sue ottime abilità di rapper, il suo flow tagliente e una grande passione per la stravaganza. Con il successivo “Verità Supposte”, Caparezza raffina le tecniche sperimentate nell’album d’esordio, prestando più attenzione alla musicalità dei brani, e raggiunge una maturità creativa impensabile fino a tre anni prima, regalandoci uno dei dischi più belli della storia dell’hip hop italiano. E’ vero anche che a Caparezza l’etichetta “hip hop” sta un po’ stretta; infatti i successivi album “Habemus Capa”, “Le Dimensioni del Mio Caos”, “Il Sogno Eretico” e “Museica” portano l’artista a sperimentare generi musicali diversi, dal cantautorato all’art rock, dal pop al nu metal, dall’hardcore all’elettronica, senza però mai abbandona complessità e varietà nei testi, resi accessibili dalla profonda vena ironica e dagli splendidi video musicali che ancora oggi ci propone.
Con “Prisoner 709”, la sua ultima fatica, Salvemini ha preferito cambiare le carte in tavola: l’ironia, finora sempre presente, viene accantonata, sostituita da una completa consapevolezza della propria fragilità di essere umano, prigioniero dei preconcetti, della religione, del giudizio del prossimo. Un album che definirei quasi “di passaggio”, legato a un momento particolare e complesso della vita dell’artista, che ne è uscito tirando fuori uno dei dischi italiani più riusciti degli ultimi anni.
Non appena vengo a sapere del tour che il buon Capa avrebbe tenuto, con una tappa al Palalottomatica, cerco subito i biglietti con una certa felicità bambinesca, alla sola idea di assistere al mio primo concerto di un artista italiano.
Il 29 novembre piove a dirotto e fa un gran freddo; Roma è nel caos e questo mi fa tardare non poco. Appena superato l’ingresso del Palalottomatica (e scongiurata una possibile ipotermia), mi dirigo di corsa nella sala: il concerto è appena iniziato. Non mi ci vuole molto tempo per riconoscere le note di “Prosopagnosia”, traccia di apertura dell’ultimo album. Caparezza, rinchiuso in una sfera e circondato da ballerini, dà prova a tutti della grande cura scenografica posta per l’evento. Luci dai colori più disparati, effetti speciali e musicisti dal vivo accompagnano il tutto. Non c’è neanche tempo per fermarsi ad applaudire al termine del brano che subito il pubblico canta a squarciagola il ritornello di “Prisoner 709” seguito a ruota da “Confusianesimo” (il miglior brano mai composto da Caparezza, a mio avviso) e “Una Chiave”. Persino la successiva “Ti Fa Stare Bene”, il brano più radio-friendly dell’album, fa la sua figura in live. “Larsen”, in cui Caparezza sfoga tutta la sua rabbia per il fastidio causatogli dall’acufene, e “L’Uomo Che Premette” mostrano invece un Caparezza ermetico; non uno sguardo al pubblico, non una parola, nessuna forma di relazione tra palco e platea. “Autoipnotica” prosegue su questa linea di tiro. Al termine del brano Caparezza esce dal palco, lasciando spazio ai ballerini per la strumentale “Prosopagno Sia!”. Poi buio.
Una gigantesca bocca viene portata sul palco, da cui salta fuori, a sorpresa, Caparezza. Per la prima volta si rivolge al pubblico e si scusa per non averlo salutato, per non averlo coinvolto e ringraziato. Spiega che i brani di “Prisoner 709” hanno rappresentato un viaggio di purificazione, da compiere in assoluta meditazione. Ora però Capa sembra esserne uscito ringiovanito. Non c’è più spazio per la tristezza; il vero concerto inizia adesso.
Dopo una lunga introduzione, le prime due note di “Fuori dal Tunnel” fanno saltare in piedi l’intera platea, che canta così forte da coprire la voce del rapper. Un veloce cambio di abiti e si riparte subito con “Legalize the Premier”, con l’accompagnamento di un coro tutto al femminile. Poi un breve intervallo in cui Caparezza si improvvisa cabarettista (con ottimi risultati) e subito “Non Me Lo Posso Permettere” dà di nuovo modo al pubblico di urlare a più non posso il ritornello.
Quattro ballerini vestiti come il nostro showman fanno ora capolino sul palco. Impossibile sbagliarsi, “Jodellavitanonhocapitouncazzo” fa alzare tutti in piedi a ballare. Poi l’atmosfera si fa malinconica con “Goodbye Malinconia” e “China Town”, interpretate magistralmente dal rapper pugliese. Bastano solo pochi minuti e Caparezza torna sul palco in tuta da apicoltore per “La Fine di Gaia”. Poi ancora pochi minuti e si torna in scena in abiti tradizionali pugliesi, è il turno di “Vieni a Ballare in Puglia”, che manda il pubblico in visibilio. Mentre tutti sono trascinati dalla carica adrenalinica del brano, un gigantesco spaventapasseri compare sul palco, richiamando il quadro “campo di grano con volo di corvi” di Vincent Van Gogh. Questione di attimi e il riff di “Mica Van Gogh” butta letteralmente giù il palazzetto, probabilmente il pezzo meglio eseguito del live. Al termine del brano, Caparezza saluta il pubblico e si congeda.
Dopo soli 5 minuti però ritorna, ringrazia la platea, i collaboratori, i musicisti e non perde l’occasione per un megaselfie con il pubblico. Ovviamente non è ancora finita. Tutti a indossare il colbacco e si parte con “Avrai Ragione Tu (Ritratto)”. A fare la differenza è però la successiva “Vengo dalla Luna”, con la quale ho praticamente perso l’uso delle corde vocali per giorni. La chiusura del concerto è affidata alle schitarrate di “Abiura di Me”, che mettono la parola fine a una delle serate più divertenti e coinvolgenti cui abbia mai assistito.
Esco dal Palalottomatica con le orecchie che fischiano (tranquilli, non per l’acufene), e tornato a casa a mezzanotte passata (il concerto è iniziato alle 9 in punto) non posso fare a meno di prendere il cellulare, aprire Spotify e ascoltare ancora una volta “Confusianesimo”, “Abiura di Me” e “Mica Van Gogh”. Il talento di Caparezza quella sera ha stupito tutti, me in primis. Era la prima volta che assistevo a un suo concerto, ma mai come adesso spero vivamente non sia l’ultima.
Leonardo Parisini
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