La scelta di adattare per il teatro il film del ‘71 di Elio Petri “La classe operaia va in paradiso”, può sembrare, in un periodo artistico di rivisitazione sfrenata, un’operazione nostalgica e anacronistica. Ma il teatro del regista Claudio Longhi non è semplice adattamento e in questo caso non è neanche solo attualizzazione. Lo spettacolo, in scena al Teatro Argentina fino al 27 maggio, è soprattutto riscoperta, politica e sociale, di una condizione che non è mai scomparsa: quella dell’operaio, che ha solo cambiato nome e luogo dello sfruttamento. A scomparire è stata invece la coscienza di classe e più in generale la collettività: in questo, il testo scritto da Paolo Di Paolo de “La classe operaia va in paradiso”, racconta in modo brillante, attraverso il passato, la realtà contemporanea.
La base di partenza è quella del film: Lulù, operaio della fabbrica B.A.N. amato dai proprietari per la sua produttività, dopo aver perso un dito sul lavoro si risveglia dalla sua vita alienata scandita dai pezzi costruiti sulla catena di montaggio per scontrarsi con la brutalità del capitalismo e la difficoltà di organizzare una protesta collettiva. Poi però lo spettacolo teatrale, soprattutto nella struttura narrativa, sceglie percorsi diversi. La classe operaia più che in paradiso va nella postmodernità: uno spazio senza confini netti, senza distanze fra persone e cose, senza consistenza fisica, in cui tutto sembra un pastiche della cultura del ‘900 e soprattutto degli avvenimenti del ‘900. Ecco che lo spazio scenico, brechtianamente, non è più solo il palco, ma anche la platea e i palchetti, sfruttati come scranni per comizi di sindacalisti e studenti o per il metanarrativo dibattito finale sul film stesso di Elio Petri. E anche il pubblico diventa così parte dello spettacolo, a volte interpellato dagli attori e in particolare da una specie di cantastorie, interpretato da Simone Tangolo, che ogni tanto appare con la sua chitarra e le canzoni di Fausto Amodei, per aggiungere un tocco di ironia e leggerezza al lungo – due ore e mezza – spettacolo, che si trascina un po’ troppo specie sul finale.
La storia di Lulù, interpretato da un eccezionale Lino Guanciale, capace di dare grande enfasi a un protagonista dalle tante sfumature, e di tutti gli altri personaggi, interpretati con grande bravura da Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone e Filippo Zattini, è interrotta anche da regista e sceneggiatore della versione cinematografica de “La classe operaia va in paradiso”, che si interrogano su come rendere al meglio alcune scene. E poi c’è un continuo avanti e indietro temporale e ambientale: dal 1971 al 2018 e di nuovo indietro al 1976; dalla fabbrica B.A.N. all’interno di un cinema romano degli anni ’70 e poi di un cinema dei giorni nostri. Tanti elementi che possono confondere lo spettatore, che con un attimo di disattenzione rischia di perdere il filo del discorso.
Dall’altro lato però è davvero difficile annoiarsi di fronte ai tanti espedienti registici e narrativi messi in scena. Molto efficace da questo punto di vista la scenografia curata da Guia Buzzi, che riproduce l’interno di una fabbrica con tanto di nastro trasportatore – elemento narrativo e simbolico che si rivelerà fondamentale – separato dalla parte del palco più vicina al pubblico da un telo trasparente, una prigione dalle mura invisibili, su cui vengono proiettati spezzoni del film originale, sigle di caroselli, frammenti di ‘900. «Una delle mie preoccupazioni principali è stata quella di creare una scena che permettesse di saltare da un luogo all’altro, dal passato al presente, dal film alla narrazione, uno spazio fluido, con cambi veloci» racconta la scenografa nelle note dello spettacolo. Poi, sempre sul palco, anche lui in dialogo più o meno scontroso con i personaggi dello spettacolo, con violino e tastiere, c’è Filippo Zattini, che cura gli arrangiamenti delle musiche accompagnando le vicende con un mix di musica classica, brani popolari e malinconici brani di pianoforte.
In un dialogo con Lucia Medri su Teatro e Critica, Claudio Longhi dice: «La consapevolezza di classe è un’idea che abbiamo perso e quindi sì, relegata al passato, la condizione invece intesa come dimensione sociale è ancora una verità del presente. Semmai oggi non sarà una classe operaia ad andare in paradiso ma il singolo operaio sì».
“La classe operaia va in paradiso” è uno spettacolo profondamente politico, in modo eccezionale per un periodo in cui parlare di politica significa essere obbligati a sposare le ragioni di un partito ed essere giudicati di conseguenza. La storia di Lulù, senza un particolare sforzo di immaginazione, diventa quella di un operaio dell’ILVA, di un dipendente di Amazon o di un precario che salta da un lavoro all’altro per sopravvivere. E il teatro, l’arte in generale, ha proprio il compito di indagare sotto le apparenze e smascherare i meccanismi ideati dal potere per illuderci che tutto sommato si sta meglio, rispetto agli anni ‘60 e ’70, e che gli sfruttati sono molto meno sfruttati di prima.
Ma il pregio principale de “La classe operaia va in paradiso” è quello di riportare al centro della scena l’importanza del costruire una coscienza politica condivisa, collante indispensabile per ricreare una collettività capace di combattere le nuove forme di sfruttamento. Viviamo in un mondo confuso, senza punti di riferimento, avvolti da una nebbia simile a quella che in una delle scene conclusive avvolge sul palco Lulù, e che scende verso la platea coprendo tutto e tutti. Per trovare una via d’uscita serve lo sforzo di tutti, e bisogna accorgersene magari prima che salti un altro dito a qualcuno, o peggio.
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