Sono le luci accecanti e fredde di Tokyo che risvegliano l’assonnato Bob Harris da una quotidianità logorante per trasportarlo lontano da casa, dalla moglie, da Hollywood, in un mondo che lui non comprende. Un mondo distorto da un nuovo ma vecchio sentimento, ritrovato in un paio di giovani occhi, quelli sognanti di Charlotte, che filtrano nella mente della ragazza una realtà non troppo reale illuminata sempre da quelle eteree luci giapponesi. Sono loro le principali colpevoli dell’importanza visiva di Lost in Translation, il lungometraggio del 2004 diretto da Sofia Coppola che la fa accomodare in quella stanza della storia del cinema già occupata, fra gli altri, dal padre Francis.
La luce che colora la pellicola è il deus ex machina di storia e personaggi che si muovono nella città, immersi tra i neon freddi di una sala giochi, appena illuminati dal flebile bagliore di una tv che inonda la stanza vuota di un hotel e riflette le loro figure incerte sul vetro. Una stanza che potrebbe riempirsi oppure diventare ancora più vuota, con un piccolo movimento, la luce giusta, le parole giuste.
La storia che nasce fra Charlotte, neo laureata in filosofia e fresca di matrimonio con il fotografo John, che accompagna per lavoro a Tokyo, e Bob Harris, attore americano in via di rottamazione, ridotto ad accettare paghe milionarie per spot pubblicitari di una marca di Whiskey giapponese, non vive però sulle parole, poche, significative, certo, ma poche, anche per un film di un’ora e mezzo. Sembra alimentata invece proprio dallo sguardo dei protagonisti che impatta sui colori abbaglianti delle strade giapponesi, sulle nuvole da cui emergono i santuari shintoisti e sui visi stessi. Morbido, immobile, adolescenziale, micro espressivo quello della giovane ragazza, interpretata da Scarlett Johansson (che all’uscita del film ha 19 anni); rugoso, caricaturale, apatico quello di Bob, interpretato da Bill Murray.
La relazione fra i due, che Sofia Coppola svela e fa crescere con la giusta lentezza, è fra le più originali che il nuovo cinema del ventunesimo secolo ci ha finora regalato. Un amore, perché di amore si parla e i due lo capiscono subito, che nasce, si sviluppa e si interrompe bruscamente proprio in quel mondo irreale e lontano dalla razionale America rappresentato dal Giappone, o meglio una versione sospesa e quasi fantastica, alla Murakami, del Giappone. Un amore quasi mai fisico, che anzi nasconde, impreziosendoli, quei piccoli momenti di corporeità.
Anche perché Charlotte e Bob sono sposati, nonostante abbiano entrambi più di qualche dubbio sul matrimonio. In una scena, lei gli chiede se la vita, anche quella coniugale, con l’invecchiamento, l’abitudine, il logorio, migliorerà. Bob, incapace di rispondere in modo sincero, rimane in bilico fra il rivelare la verità e il mentire cercando di confortare la ragazza. Ed è proprio su questo argomento che entra in gioco quel suo lato protettivo che mostra quanto del suo sentimento amoroso verso la ragazza derivi da una specie di responsabilità paterna, che lo frena dallo spingersi troppo in là.
Un sentimento d’amore che Bob sentiva, con l’invecchiamento, l’abitudine, il logorio, di aver perso. Invece l’ha ritrovato lì, negli occhi, nel corpo e nel riflesso della Charlotte di Scarlett Johansson, un’esplosione di erotismo, ingenuo ma non troppo. Anche lei rimane accecata dalle luci dell’apparente irrealtà della situazione, anche se, a differenza di Bob, che ha perso da tempo la leggerezza dell’essere, sembra meno consapevole e quindi più libera da quella corda che tiene i due ancorati alla realtà vera del matrimonio, delle responsabilità e delle convenzioni sociali che li aspetta al bivio che inevitabilmente li separerà.
Fino a quel momento fra i due accadranno tante cose. O non succederà niente. A seconda dei punti di vista. Sofia Coppola, che di Lost In Translation ha scritto anche la sceneggiatura, con cui porta a casa un Oscar, è sleale verso i due protagonisti. Lì fa burattini di una riflessione sull’amore che non deve essere necessariamente sessuale, passionale, caloroso, che può essere invece freddo, come le luci dei Karaoke bar di Tokyo, ragionato, parlato e limitato nel senso di recintato all’interno di una linea, temporale, sociale, d’età. Una linea non scavalcabile, che lo rende più intenso.
Una riflessione possibile solo lontano dalla realtà. Un allontanamento ottenuto grazie alla Tokyo luminosa, fantastica ed eterea che Lance Acord, il direttore della fotografia, ci consegna, ma anche grazie all’ultimo toccante tassello che trasporta lo spettatore, come i protagonisti, lontano, molto lontano dal mondo. Una colonna sonora che va dall’elettronica allo shoegaze, da Squarepusher agli Slowdive. Anche qui ‘illuminare’ è la parola chiave. Illuminare, stavolta musicalmente, i grattacieli, gli appartamenti, i bar, le strade, le stanze d’hotel, i letti, i corpi e i volti smarriti di due persone che alla fine avranno la fortuna, a noi ormai preclusa, di non rincontrarsi mai più.
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