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La seconda volta che posai gli occhi su di lei correva l’anno 1283. All’epoca avevo diciotto anni ma, nonostante il tempo passato, ricordo ancora il modo in cui la sua mano vellutata si alzò in segno di saluto. I suoi sottili capelli dorati oscillavano per via della sua andatura; il vestito bianco come quello di un angelo le incorniciava le forme delicate; il secondo in cui girò adagio la testa verso di me e il sorriso si aprì sul suo viso, quel sorriso lucente capace di abbagliare con i suoi occhi azzurri come due zaffiri. Gli occhi di quella donna erano capaci di far innamorare, di far cadere qualunque uomo di fronte alla sua bellezza e alla sua bontà.

Purtroppo successe proprio a me: non appena i nostri sguardi si incrociarono sentii cambiare e crescere qualcosa in me. Proprio lì, su quella stradina di Firenze, capii di essermi innamorato di un angelo; nel momento esatto in cui lei, sorridendomi, alzò la mano, mi resi conto di esser caduto in una trappola più grande di me: l’amore.  

Entrambi andammo avanti con gli anni e nel 1287 lei purtroppo dovette sposare Simone dei Bardi. Ma non fu quello il dolore più grande: il colpo di grazia arrivò quando, tre anni dopo, morì. Non passavo un giorno senza pensare a lei, al modo in cui leggera si muoveva. Avevo sprecato l’occasione di esprimere il mio amore, troppo preso dalla paura di un rifiuto e ora che lei è andata via io non avevo neanche potuto salutarla: sento ancora il continuo peso del pentimento sulle mie spalle. 

La mia luce si riaccese quando, una decina di anni dopo, giunto sulla cima della montagna del Purgatorio vidi una donna coperta da un velo bianco, un mantello verde, una veste di un rosso vivo e una magnifica ghirlanda d’ulivo ad accarezzare i suoi lunghi capelli. Anche se non riuscii subito a vedere il suo volto, tutto in me la riconobbe: il mio cuore si riempiva di gioia, la mia anima si rilassava alla vista di quell’angelo che mai purtroppo fu mio; tutte quelle sensazioni magnifiche furono messe da parte per colpa della paura, che in un attimo s’impossessò di me. Chiesi spiegazioni alla mia guida Virgilio parlandogli del mio sgomento e lui, mio caro amico, mi disse che per accedere all’ultimo regno avevo bisogno di lei, quella ragazza che anni addietro prese il mio cuore, la mia ispirazione, colei che continuava ancora a controllare i miei stati d’animo. 

Arrivò poi di nuovo il momento in cui io dovetti separarmi da lei, tutto si ripeteva nella mia testa, e anche se poi non l’avrei più rivista in me era presente una piccola luce di speranza. Ci salutammo e lei scomparì dalla mia vista proprio come la prima volta. 

Non la vidi più dopo quella volta: io infatti sposai Gemma, anche se nel mio cuore niente era di lei poiché lì rimase sempre impressa la forma degli occhi di Beatrice. Ancora oggi, giorno del mio ultimo respiro, vedo quegli occhi e quel sorriso scrutarmi da lontano.

Martina Mangiavacchi

Martina Mangiavacchi

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