Con l’espressione “fast fashion” (tradotto ‘moda veloce’) si intendono tutti quei brand di moda low cost che cambiano continuamente i prodotti in negozio, andandone ad abbassare i prezzi a discapito della qualità. Il fast fashion analizza i trend e velocizza il processo di creazione e di vendita, creando così un circolo di innovazione fittizia e di prodotti quasi sempre scadenti. È un approccio completamente diverso dal design, dalla creatività, che ha come scopo ultimo rendere i fashion trend facilmente accessibili al pubblico di consumatori.
Se prima la maggior parte dei brand seguivano la stagionalità e facevano uscire due collezioni l’anno (le cosiddette ‘fall-winter’ e ‘spring-summer’) ora basta andare in un qualsiasi negozio, o sito di e-commerce, per accorgersi che l’assortimento di prodotti non è mai uguale e che cambia molto velocemente. Ormai è possibile avere anche 52 micro collezioni in un solo anno, e gli unici brand che si attengono alla stagionalità per far uscire collezioni nuove sono i marchi di lusso, quindi i marchi d’alta moda.
Tutta questa moda low cost però ha un costo, e non lo stiamo pagando noi, ma la terra al posto nostro. Dati scientifici confermano che solo nel 2015 il settore della moda abbia prodotto circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti, dei quali solo circa 1% riciclabile. A questo aggiungiamo tutti i campi di coltivazione intensiva di cotone e di fibre, oltre ai fertilizzanti chimici ad alto impatto ambientale. E se il bene della terra può sembrare un concetto troppo astratto, ci sono stati tantissimi incidenti che provano che il fast fashion e i settori che vi sono dietro sono anche responsabili di centinaia di morti. A ricordarcelo sono tragedie come quella del 2013 in Bangladesh, dove l’edificio/fabbrica tessile Rana Plaza crollò causando la morte di 1000 dipendenti e ferendone più di 2500. Tutto ciò per colpa di un’industria che vuole spendere sempre meno soldi e per questo ammucchia i dipendenti (sfruttati e sottopagati) in edifici instabili e con nessun tipo di manutenzione. In questo caso i dipendenti che lavoravano in condizioni estreme giorno e notte si erano accorti delle crepe sui muri e lo avevano riportato ai superiori, ma loro non li hanno ascoltati, anzi li hanno minacciati di licenziamento. I dirigenti li costrinsero a lavorare comunque per paura di perdere i loro contratti con le grandi catene di fast fashion che rifornivano. Questo incidente non è il primo e non sarà l’ultimo: un altro esempio è l’incendio dell’edificio Ali Enterprise in Pakistan, dove morirono 260 persone.
Il fast fashion riesce ad ottenere un prodotto cosi a basso prezzo sfruttando i lavoratori di paesi estremamente poveri come il Bangladesh, la Colombia, l’India e la Cina e utilizzando materie prime a basso costo e non sottoposte a controlli o esami chimico-fisici previsti dalle leggi Italiane, o da altri paesi Europei.
Esistono però associazioni internazionali che lottano contro lo sfruttamento sociale nel settore tessile. Una delle più grandi è Fashion Revolution con la loro campagna ‘Who made your clothes’, nata subito dopo l’incidente del Rana Plaza. Un’altra associazione che lotta per una moda più etica è la Clean Clothes Campaign nata negli anni 90.
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