Sono sveglia, ora. Sono in macchina. Non so cosa c’entri la macchina, forse sto ancora sognando. Non importa, non ho voglia di pensarci ora. Sono sveglia e sono in macchina, ma qualcosa non va. Questo silenzio, un totale silenzio, niente rumori, niente voci. Nessun pensiero.
Sono sveglia e mi tocco la bocca. Non so cosa c’entri la bocca, ma la devo toccare. E’ chiusa, e la sento piena di qualcosa. Non riesco a mettere in fila un pensiero logico, mi affido ai sensi e cerco uno specchio. L’istinto funziona ancora, e mi spinge verso lo specchietto retrovisore. Allungo il braccio e mi accosto il più possibile con il viso; giro lo specchietto, rimane nella mia mano e viene via.
Guardarmi ora è più facile.
Sono sveglia e ho la bocca nera. La mia bocca è nera e piena di grumi scuri, e si apre lenta. Io, sola, mi muovo lentamente, nella macchina. Muovo piano gli occhi, dalla bocca, tutto intorno: vetro, sangue, silenzio. E un primo, debole pensiero: devo uscire di qui.
Sono sveglia, e sono sola. Il silenzio ora è immerso nel buio. Devo aver chiuso gli occhi. La mia bocca nera di grumi non si muove, come tutto il resto del mio corpo. Eppure sono sveglia. Mi tocco di nuovo la bocca. Accarezzo tra le dita un grumo nero di sangue. E’ caldo. Liscio e caldo. E mi racconta una storia. Chiudo gli occhi, ora. Nonostante il silenzio, e il buio.
Vedo un uomo. Sento un uomo. Non posso udire la sua voce, non posso guardare il suo volto. Posso sentire, però, ogni sua emozione, ogni suo pensiero. Per quanto ci provi, aggrappato con tutte le sue forze alla maniglia troppo piccola per le sue mani, non riesce ad aprire quello sportello. Ha addosso quell’ansia di far presto, sa che anche un secondo in più o in meno è importante. Sa però che in questi casi bisogna riflettere, e si ricorda che nel portabagagli ha gli attrezzi: crick, cacciavite, croce per i bulloni. Ecco, la croce forse può andare, forzando prima con un cacciavite. Sua sorella lo dice sempre: “Menomale che ci sei tu, a restare lucido, altrimenti…”. Quando il padre aveva avuto un ictus, era lui che aveva chiamato l’ambulanza, parlato con i dottori, e si era ricordato anche di avvisarli che suo padre era allergico all’acetilsalicilico, non si sa mai. Prende gli attrezzi e torna alla macchina, fatemi spazio, dice agli altri. Ha una voce morbida, posso sentirlo, anche senza udirlo. Infila prima il cacciavite, poi la croce, e tira via lo sportello. La prima cosa che vede è una bocca nera di sangue raggrumato.
E’ la mia. La mia bocca nera di grumi. Aiutami. Voglio uscire di qui. Apro gli occhi, ma fuori non c’è nessuno. Eppure io l’ho visto, l’ho sentito, l’uomo dalla voce morbida.
Sono sveglia, sono sola, sono chiusa in un auto con i miei grumi neri di sangue a tenermi compagnia. Un altro grumo tra le dita, a staccarlo dalla bocca. D’istinto. Per ascoltare ancora, per poter gridare ancora aiuto. Ogni grumo, un nuovo anello del girotondo. Questo grumo però perde sangue, macchia le dita, ed è ruvido. Non è come l’altro. Non ha la voce morbida. Non voglio vedere, non voglio sapere. Ma è troppo tardi, ormai.
Un altro grumo, un altro uomo. Tira un sospiro di sollievo, quest’uomo, perché finalmente lo ha fermato, ha fermato quell’enorme bestione che aveva sotto il culo, e che gli era sfuggito di mano, fottuto di un camion, combinando un casino. Quindici secondi di panico totale. Non ci ha capito niente, lui; tutto è accaduto troppo in fretta, e senza il suo controllo. Ora sembra finita, il camion è fermo, e lui può respirare. Abbraccia il volante e vi si accascia esausto. Si sente svuotato, ora, senza pensieri, senza emozioni. Quando alza la testa dal volante, guarda fuori: è incappato in un incidente, cazzo. Qualcuno si dirige verso di lui, correndo, agitando le braccia, chiamando. Sto bene, credo, non mi sono fatto niente. Il bestione qui è potente e protegge chi lo guida. Apre lo sportello e scende, saltando sull’asfalto senza passare dal gradino. Sto bene, non mi sono fatto niente. Poi guarda la strada: un bel po’ di auto vuote e un mucchio di gente che si agita; una macchina ferma dall’altro lato, distrutta davanti e dietro. Sembra ci sia qualcuno dentro, immobile, forse morto.
Poi vede il camion, il suo bestione. Il muso rivolto dove tutte le altre macchine hanno il culo. Totalmente contromano. E’ come un cazzotto. Un cazzotto potente in piena pancia, a togliere il respiro.
E’ a me che hai tolto il respiro. Sono io dentro l’auto distrutta. Ma no, non sono morta. Non sono morta, e devo uscire di qui. Lascio cadere il grumo nero di rabbia e guardo fuori. Ora sono arrivati. Sono tutti intorno all’auto, intorno a me. Posso distinguerli uno a uno, sono veri. Sono tanti, e si affannano per farmi uscire. Mi sento stretta, circondata. Troppe persone, ora, fuori dal finestrino. Tiratemi fuori, per favore. Qui c’è vetro, sangue e silenzio, troppo silenzio. La mia bocca è nera di grumi, ora, senza storie da raccontare, se non la mia.
Un rumore forte e finalmente sento il fresco sulla pelle del viso.
Fai piano, mi dice qualcuno, e mi afferra un braccio, con un tocco delicato. Sei vero? Chiedo. La mia bocca parla, e io non so cosa dice. Hai avuto un incidente, mi dicono. Poi mi chiedono un numero di telefono da chiamare, ma io non so rispondere, non trovo numeri dentro di me.
Mi sento stanca. Tanto stanca. Accasciata al bordo della strada, stringo un altro grumo tra le dita. E’ liscio, e caldo. E’ di nuovo la voce morbida, quella che sento solo io. E’ la voce morbida che mi parla di sé. Sa che non avrebbe dovuto muovere la ragazza dalla macchina, lo ha detto anche agli altri. Ma lei era semplicemente uscita, si era alzata ed era uscita, reggendosi a stento in piedi, lo sguardo lento, la bocca piena di sangue raggrumato. Lui ora la sorregge e le parla con voce gentile, cercando di nascondere la paura che lei gli muoia fra le braccia. Suo padre era morto accanto a lui, nel suo letto, guardandolo. Non aveva mai scordato quello sguardo, e quel suo modo di parlare con l’unica mano che poteva muovere: uno, il pollice; due, l’indice; tre, il medio. Poi di nuovo pollice e indice, a ondeggiare da una parte all’altra. Uno, non posso parlare, due, non posso muovermi, tre, sto soffrendo: non c’è più nulla da fare. Sua sorella non voleva accettarla, quest’ultima interpretazione, ma era la più logica, per quel gesto ondeggiante a due dita, e forse la più sensata. La ragazza, ora, è seduta sul marciapiede accanto a lui, e non sembra soffrire, nonostante tutto quel sangue dalla bocca. Bisogna che l’ambulanza si sbrighi, però. Non voglio vederla morire.
Non voglio morire, infatti. Non voglio. Sono io, sono qui. Il grumo liscio e caldo mi si è sciolto tra le dita. Provo a cercarne un altro, provo a inseguire la storia dell’uomo dalla voce morbida. Trovo invece di nuovo un grumo ruvido, ancora lui. Ancora lui con il suo bestione di camion, ancora lui che non capisce come sia accaduto. Doveva essere stata una macchia d’olio. Guarda, vieni… Vieni a vedere anche tu. Una macchia d’olio in mezzo alla strada. La pioggia. Non ho mai avuto un incidente, io… devi credermi… oddio. Si rende conto, lui, di cosa ha combinato, eppure è sicuro, c’era una macchia d’olio, per quello ha perso il controllo, quel cazzo di camion ha sbarellato e lui ha fatto il possibile per tenerlo. Guarda la macchina, o madonna, è distrutta. Non ho mai avuto incidenti io, mai, è la prima volta… oddio… vi prego, credetemi, l’olio. Cosa devo fare? Cosa posso fare? E’ scivolato, quel fottuto di un camion non ha retto, e ha dovuto sterzare a sinistra per non prendere le macchine davanti. Oddio, quella sul marciapiede è la ragazza che stava in macchina. E’ piena di sangue. Tutta la bocca. Anche lui, ora, si sente male, ha i brividi, e piange, piange, e ha tanta paura, muore di paura.
Anche io ho paura. Ho paura anche dei miei grumi neri che mi parlano. Non li voglio ascoltare, ora. Schiaccio il grumo ruvido e mi concentro sui rumori intorno a me: un ronzio confuso e fastidioso. Molto fastidioso. Qualcuno mi parla dolcemente e mi chiede come mi sento. Sorriderei, ma la bocca nera di sangue raggrumato mi tira, mi tira ogni centimetro di pelle. Lo so che ho avuto un incidente, l’ho capito. Ma non sento dolore, giuro, non sento alcun dolore. Solo mi sento stanca. Dormirei, davvero, ora vorrei solo dormire. C’è qualcuno che piange, però, forse per la paura, forse per il suo bestione, lo so, io, lo so. Ma non mi importa, non mi importa di nulla. Non ho lacrime, io, non ho groppi in gola, né occhi che bruciano. Non mi agito, non urlo, non cammino avanti e indietro, come fa lui. Io non piango. No, non piango. Non so perché dovrei piangere, non sto soffrendo. Sono solo stanca, stanca dentro. Se ascolto ancora i miei grumi neri, forse tutto questo rumore sparirà. Con le dita in bocca, a cercare qualcosa di caldo e morbido. Trovo due grossi grumi vicini, tremanti, quasi sembrano vivi, come avessero un cuore tutto loro. Di nuovo il silenzio intorno a me, per permettermi di ascoltare la loro storia. E’ la voce di una donna, stavolta. Risponde al telefono che squilla.
– Pronto? –
– La signora Luisa Canali? – Nessuno la chiamava ‘signora’, lì a scuola. Lei era solo ‘la preside’.
– Chi parla?
– Lei ha una figlia di nome Ilaria nata il 10 agosto del ’75? – Si. Sono io, sono la madre.
– Si, è mia figlia. Chi parla? – Ilaria.
– Signora, sono l’assistente capo Luciani, posto di polizia presso l’ospedale San Giacomo, le devo dire purtroppo che sua figlia ha avuto un incidente d’auto. E’ arrivata qui in ambulanza, ora è con i dottori, credo sia grave, signora – Si concesse solo qualche secondo, per riprendere il controllo del respiro, e dei pensieri. Prima di cedere alla paura, doveva capire. Doveva capire bene come stavano le cose.
– Senta, ha già il referto medico, me lo può leggere, per cortesia?
Si era alzata in piedi, ora. Vide sua figlia in quella stanza, la gonna estiva e quella sua felpa logora, coi polsini smangiati, per cui l’aveva spesso rimproverata.
– Ilaria, ma ti presenti qui conciata in quel modo?
Però poi aveva chiamato il ragazzo del bar e aveva offerto da bere all’intera vicepresidenza, per presentare a tutti sua figlia.
– Il referto medico ancora non è stato stilato. Mi dispiace, signora, non so dirle altro. Un camion in via San Gregorio è andato fuori strada e ha investito la sua macchina – Un camion. Un camion contro una macchina è una lotta impari. E nessun referto significa nessuna certezza. Devo sbrigarmi. Come lo dico a Gianni, ora?
– Può dirle per favore che arriviamo immediatamente? – Era una domanda stupida, ma in quel momento non le venne altro da dire.
Ti sto aspettando, mamma. Non ho paura, ora che ti sento. Sono solo stanca. E ho la bocca nera di grumi. Ma non soffro. Aspetto, e intanto accarezzo l’altro grumo caldo, vicino al tuo. So già che storia mi racconterà. La storia di un uomo che cammina da una parte all’altra del marciapiede, inseguendo l’attesa e cercando di vedere oltre il volto di Ilaria, il volto di sua figlia, la sua unica figlia. Non riesce a stare fermo, riesce solo a camminare avanti e indietro, facendo scivolare i pensieri uno dopo l’altro. Ma quanto ci mette? La scuola non è lontana da qui. Proprio non può a capire come faccia sua moglie a rimanere calma in situazioni simili. Lui invece si sente esplodere, e l’unica cosa che lo placa è muoversi. Eppure se lo sentiva. Quella mattina, avrebbe dovuto accompagnarla lui Ilaria, con tutta la pioggia che veniva giù, ma lei non aveva voluto. Sempre di testa sua, Ilaria. E ora.
Ora quell’attesa lo sta snervando. Sente solo una frenesia indomabile, priva di vie di sfogo. Ma quanto ci mette? Guarda l’orologio, scruta le macchine una a una, gira indietro sui suoi passi, ma stavolta allunga il percorso fino all’edicola poco più in là. A Ilaria piace leggere, magari può portarle un libro. No, non c’è tempo, sua moglie può arrivare da un momento all’altro, e lui deve essere pronto. Ilaria li sta aspettando.
Vi sto aspettando, infatti. Sono in ospedale, ora. Niente più grumi da ascoltare, qui. Niente più storie. In quattro o cinque col camice mi girano intorno. Veloci, velocissimi. Vi prego, fermatevi, vi prego. Parlate con me, vi prego… ditemi, voglio sapere. Sono stanca, mi affatica vedervi agitare su di me. Parlate con me, vi prego. Uno-due-tre, tutti insieme ai quattro angoli della lettiga. Mi hanno spostato su un’altra superficie, forse un letto, ma più duro. Ora mi osservano, mi girano, mi toccano. Non sento cosa dicono, non riesco, sono troppo veloci. Vorrei un po’ di calma, vorrei sapere. Ho capito che sto male, molto male. La bocca nera di grumi la conosco bene, mi ha parlato, mi ha raccontato un girotondo di storie, e io ero lì, ad ascoltarle, a farmi tenere compagnia. Ma ora devo capire. Cosa ho alla testa? La testa. Cosa ho alla testa? Chiedo a uno dei camici che spinge la mia barella. Cos’ho alla testa? Non mi risponde. Lo dico più forte. Non può non sentirmi. Riprovo, ma niente. Cos’ho alla testa? Vi prego, fermatevi. Ho bisogno di risposte. E i miei grumi non hanno risposte, e non mi parlano più. Mamma. Papà. Mamma, dove siete? Mi sento stanca, mamma, tanto stanca. Ma non ho dolore, state tranquilli, non ho alcun dolore. Ho solo paura. Adesso ho davvero paura. E sono stanca. Parlate con me.
La bocca nera di grumi ora è chiusa, in silenzio, totale silenzio. Definitivo silenzio. Un unico grosso grumo di sangue freddo nella testa, a raccontarmi l’ultima storia. Quella di un padre e di una madre che entrano in ospedale dalla porta principale. Qualcuno li prende da parte e dice loro parole che non avrebbero mai voluto sentire e che non avevano voluto immaginare. Parole indicibili.
Il dolore li ha resi rigidi, rallentando i loro movimenti. Prima di aprire la porta, si stringono forte, uno appoggiato all’altro. Nessun dramma. Non ora. Ora devono solo salutare la loro unica figlia, salutarla e basta. Entrano. La camera in penombra. Si avvicinano piano, un insieme di paura e di vuoto. Le prendono la mano ormai fredda, entrambi, uno sopra l’altra.
Veronica Giannini
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