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La fiaba di Raperonzolo – modernizzata!

da 15 Apr 2021Creazioni0 commenti

C’era una volta, in una grande casa, una ricca coppia che da qualche mese era in attesa di un bambino. Nella casa di fronte, vecchia e trasandata, viveva una vecchietta, che aveva un giardino, rigoglioso e molto particolare: se nella città i colori erano sbiaditi e soffocati dall’aria pesante, in quel luogo incantato tutto pareva splendere di colore e avere un aspetto magnifico. 

Un giorno, la donna in dolce attesa si poggiò alla finestra e guardò quel giardino, scorgendo dei raperonzoli dall’aura deliziosa. «Amore, li vedi quei raperonzoli? Mi è venuta un’incredibile voglia di mangiarli… Potresti portarmene un po’?», chiese lei. Il marito la guardò dispiaciuto e le disse che era vietato entrare in quel giardino, perché era proprietà privata, ma la moglie lo implorò a tal punto da convincerlo ad andarci.

La donna saziò il suo desiderio, ma scoprì di non poter fare a meno dei raperonzoli e ne volle altri. Il marito continuò a entrare nel giardino per la moglie, quando un giorno la vecchietta lo sorprese e lo guardò furibonda. Un tuono echeggiò in distanza e all’uomo venne da sorridere, perché sembrava che il tuono fosse stato programmato per sentirsi in quel preciso istante. 

La vecchia fissandolo con aria cupa scese i gradini uno alla volta, con una lentezza che aumentava ancora di più i timori dell’uomo. Gli occhi verdi e chiari della deforme anziana lo fissavano con sdegno. I capelli sporchi erano raccolti sulla nuca, mentre il lungo abito a fiori si muoveva attorno agli arti magri, mosso dal vento. 

Gli puntò il fucile contro e l’uomo alzò immediatamente le mani, buttando a terra i raperonzoli raccolti. «Non sparate!», gridò lui, indietreggiando di alcuni passi, calpestando l’insalata ancora incolta e rigogliosa. Lo sguardo della vecchia cadde sulle verdure calpestate e l’espressione si tinse di rabbia. 

«Datemi un valido motivo per cui non dovrei piantarvi questa pallottola in testa», disse fredda la vecchia. L’uomo iniziò ad agitarsi, non sapendo cosa fare, e pensò di essere finito, quando gli tornò in mente il volto della dolce moglie gravida.

L’uomo le spiegò delle voglie della moglie e giurò che non avrebbe più rubato, se lei lo avesse fatto tornare. L’anziana rimase a guardarlo impassibile, senza alcuna compassione. Alzò un sopracciglio e sorrise, chiedendo all’uomo se avesse sentito giusto. Lui annuì e si chinò disperato a supplicarla.

Lo lasciò andare, ma chiese in cambio il bambino che sarebbe nato. Si voltò e iniziò a risalire i gradini. In quell’istante l’uomo temette ancora di più la vecchia. I mesi passarono e venne il giorno del parto; una bambina in più esisteva sulla terra, con la sua pelle delicata e le labbra sottili. La notte stessa, l’anziana tornò e rapì la bambina, scomparendo per sempre dalla vista dei due coniugi.

Dopo aver ristrutturato un vecchio e robusto mulino, la vecchia si stanziò lì, assieme alla bambina, che chiamò Raperonzolo. Fu così che in quel mulino dall’entrata inferiore murata, assieme a tutte le finestre tranne una, Raperonzolo crebbe, diventando una giovane dai lunghi capelli biondi e gli occhi verdi. 

La ragazza portava i capelli legati in grosse trecce e spesso guardava la notte, senza mai uscire dalla sua casa. Sua madre le aveva detto che il mondo era popolato da mostri egoisti e incapaci di trattenersi dal fare ingiustizie; li chiamava “umani”. Raperonzolo, però, non sapeva che aspetto avessero queste creature e non ebbe mai il coraggio di chiederlo.

Durante il giorno, la madre usciva sempre, perché doveva trovare del cibo, che Raperonzolo credeva crescesse sugli alberi, poiché erano gli unici che vedeva, vivendo all’interno del mulino. Quando tornava, la madre chiamava:

«Raperonzolo, t’affaccia,

lascia pender la tua treccia!»

Lei gettava la lunga treccia e la faceva salire. A volte le chiedeva cosa portava nel cestino e ascoltava le incredibili avventure che compiva per procurare quelle cose.

Un giorno, mentre gli uccelli cantavano l’arrivo della primavera, un ragazzo, in campeggio con la scuola, si trovò nelle vicinanze del mulino e sentì il melodioso canto femminile; ma non riuscì a vedere chi fosse e non trovò entrate. Si promise di ritornare e di trovare la padrona di quella voce.

Arrivò l’estate e il ragazzo tornò. Fece il giro del mulino ma non vide nessuno né tantomeno porte per entrare. Si trovava dalla parte opposta, quando sentì una voce roca chiamare:

«Raperonzolo, t’affaccia,

lascia pender la tua treccia!»

Sporgendosi un poco, scorse una donna attempata salire sul mulino, aggrappandosi a una lunga treccia bionda. Tornò alla sua tenda e attese il giorno seguente, sperando di poter  salire anche lui. Così fu che, una volta arrivato al mulino, mentre la voce irradiava nuovamente l’atmosfera con il suo dolce canto, prese un bel respiro e chiamò:

«Raperonzolo, t’affaccia,

lascia pender la tua treccia!»

Pochi istanti dopo la ragazza gettò la treccia e fece, inconsapevolmente, salire il ragazzo, che, vedendola, si bloccò. Raperonzolo si voltò a guardarlo e si paralizzò, non tanto per il fascino, ma più per il terrore. Volle urlare per lo spavento, ma i modi gentili del ragazzo la calmarono. Ben presto si rese conto che ogni volta che lo guardava, il suo cuore batteva più forte; quindi, spaventata, gli chiese cosa le stesse succedendo.

Lui le prese la mano e la portò al suo petto. «Si chiama “cotta a prima vista”», le disse, cercando di prendersi seriamente. Raperonzolo lo guardò di bieco e gli chiese cosa fosse. Il ragazzo scoppiò in una fragorosa risata e le spiegò il significato.

Il telefono vibrò nella tasca del giovane e lei s’incuriosì, guardando la scatolina bianca tra le mani del giovane. Lo vide passarci sopra le dita velocemente, ma non volle domandargli cosa fosse. Non era certa di volerlo sapere.

Si fece tardi e il giovane andò via promettendo che sarebbe tornato. E così fu, molte altre volte. La ragazza iniziò a capire che l’amore derivava dal battere accelerato del cuore, che scaldava le notti fredde. Quell’amore, sbocciato come i fiori più belli, li portò a superare quella linea tra innocenza e passione.

Col tempo imparò che quella scatolina bianca si chiamava “telefono” e che le donne all’esterno portavano qualcosa di nome “pantaloni” e si dipingevano la faccia, così un giorno ci provò pure lei e finì per farlo ridere a crepapelle. Ogni volta, lui le portava uno straccio che nascondeva sotto al letto, per riuscire un giorno a portarla fuori con sé. La madre non s’accorse mai di nulla, finché Raperonzolo non le chiese se avesse potuto avere dei “pantaloni”.

Sentendo quella parola, che lei non le aveva insegnato, capì che la ragazza era entrata in contatto con altre persone. Le urlò contro insulti e maledizioni, e, non trovando altra utilità in lei, la tirò per i capelli fino alla finestra, recise con un taglio netto la sua treccia, e la cacciò via, lasciandola a vagare in solitudine per quelle campagne. La ragazza arrivò a un centro abitato, dove una donna accettò di farla lavorare nella sua fattoria. 

Il giorno dopo giunse al mulino il ragazzo, che chiamò:

«Raperonzolo, t’affaccia,

lascia pender la tua treccia!»

La vecchia buttò la treccia e lo fece salire. Una volta su, il ragazzo non trovò la sua amata, bensì un’anziana con un sorriso amaro sulle labbra. «Che hai fatto a Raperonzolo?», chiese lui. Vedendolo, la sua rabbia aumentò e, urlando maledizioni, lo spinse giù dal mulino. Il ragazzo sbatté forte la testa e, a causa dell’impatto non abbastanza forte da ucciderlo, perse la memoria.

Iniziò a camminare, quando il telefono prese a vibrare. Un contatto salvato come “mamma” lo stava chiamando, rispose incerto e non seppe cosa dire a quella voce sconosciuta. Col passare dei mesi, giunse pure lui per caso nella cittadina dove Raperonzolo si era stabilita e aveva da pochi giorni messo alla luce due gemelli, un maschio e una femmina.

S’incrociarono per caso e quando lei lo vide, lo riconobbe all’istante. Fu nel momento in cui esclamò il suo nome con gioia, che il cuore del ragazzo riprese a battere all’impazzata e i ricordi tornarono al loro posto. Il giovane portò Raperonzolo nella sua casa, dai suoi genitori, cui i due innamorati raccontarono tutta la loro storia. I genitori del ragazzo notarono nei tratti della bella fanciulla una forte somiglianza con un’amica di famiglia che aveva perso la figlia anni prima. Raperonzolo ebbe modo così di conoscere i suoi veri genitori e vissero tutti felici e contenti.

Aleksandra Babis

Aleksandra Babis

«Volai nel cielo senza mai cadere», scriveva il libro, mentre la ventenne lo chiudeva, sorridendo al cielo.  Aleksandra, nata in Polonia, è una studentessa di Lettere moderne presso l'Università statale di Pisa, che tende ad avere dei picchi di cinismo e follia, quando poggia la penna sulla carta. Lasciate ogne speranza o voi ch'intrate.

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