Il cinema di Miyazaki a quale fascia d’età può essere etichettato? E il suo scopo è comunemente quello di rendere più confortevole una normale serata in famiglia? Si può certo dire che non si attiene agli standard di un normale film d’animazione, ignorando persino quelli della sua sottocategoria, ovvero degli anime giapponesi. Ma è proprio questo, forse, a permettergli di condensare le effettive potenzialità visive e comunicative di tale maniera alternativa di fare cinema. Un cinema che volta le spalle all’originaria potenzialità del suddetto mezzo artistico, ovvero il solido legame con la realtà; poiché, per quanto possa subire la “deformazione” dell’autore, l’immagine filmica si genera pur sempre da una cinepresa che cattura, almeno apparentemente, la realtà pura e concreta. Nel cinema d’animazione tutto si capovolge e l’autore propone il suo mondo sognante partendo da una tabula rasa: ciò può condurre a creare contenuti stracolmi di sciatte fantasticherie, atte solamente a proporre una subdola visione floreale e buonista del mondo.
Nel cinema di Miyazaki, invece, la cristallizzazione di un mondo immaginario e lo schiudersi di sensazioni profonde si sfregano miracolosamente. Le tavolozze viventi dell’autore nipponico ci conducono in vorticose foreste di simboli, in teatrali luoghi tetri, in lunghissime distese verdeggianti dalle quali scorgere la pace, tra personaggi bizzarri e spesso anche rivelatori. Tutti questi elementi non hanno il semplice scopo di creare un universo di finzione distinto, “di proprietà” dell’autore; se i film di Miyazaki ci emozionano è proprio perché i loro labirinti di sentimenti permettono a ognuno di trovare la propria strada all’interno di essi, di vagare in un mondo la cui inverosimiglianza non è casuale, non è mai fuori posto, mescolandosi e trovando infine un equilibrio con le componenti più vicine a un realismo crudo e asciutto. È difficile da trasporre in parole, eppure ogni elemento fantastico, surreale, anti-gravitazionale, sempre ricorrente nei suoi film, sembra trovare una piena aderenza con quelle sfumature più vicine alla nostra realtà.
Il confine tra reale e surreale viene annientato grazie alla totale naturalezza con cui l’autore lo affronta. La forza di volontà che invade Kiki (“Kiki – Consegne a domicilio”, 1989) nel momento in cui riacquista i suoi poteri di strega la percepiamo in pieno anche noi spettatori. Questo proprio perché l’autore in quella sequenza, al posto di uno struggente tema di violini, sottrae ogni componente sonora, lasciando scivolare la nostra concentrazione su ciò che il personaggio sta realmente vivendo. E così il volo di Kiki non è più frutto della fantasia dell’autore, bensì il risultato della volontà di potenza del suo personaggio, che attraverso un gioco alchemico lo spettatore fruisce assieme a lui.
Del resto, lo spirito di immaginazione che film come “La città incantata” (2001) o “Il castello errante di Howl” (2004) risvegliano in noi non è altro che il rimettersi in contatto con quella delicata essenza dello sconfinato animo infantile situato ancora all’interno di ognuno di noi. Il cinema di Miyazaki, oltre che a un pubblico infantile, dovrebbe essere suggerito a un pubblico adulto e maturo, in modo da condurre quest’ultimo a riconnettersi con quel senso di fragilità e di purezza dell’esistenza. E anche per un bambino, ancora ignaro del mondo che lo circonda, un simile cinema non può che essere di estrema formazione. In particolar modo in “Principessa Mononoke” (1997), Miyazaki non traspone solamente la bellezza e l’amore depositati nell’animo umano: egli ci mostra anche la cattiveria e la violenza dell’uomo, contro sé stesso ma soprattutto contro il pianeta che lo accoglie. Per una mente non ancora plasmata, è importante conoscere anche questo lato più tetro della medaglia della natura umana, poiché è censurando il male fin dall’inizio che esso diviene un maggiore oggetto di attrazione. Se si mostra il male per quello che è, accostato al suo esatto opposto, la coscienza sarà allora in grado di leggere la direzione giusta all’interno della bussola della propria interiorità.
Per quanto riguarda poi l’identificazione del male, un efficace modo con cui Miyazaki mette alla prova lo spettatore è il porgli dinanzi esseri mostruosi e ripugnanti (come i parassiti in “Nausicaa nella valle del vento”, 1984), svelandoci gradualmente il loro effettivo carattere innocuo. Alla fine ci stupiremo notando che il mero punto di origine del caos e della distruzione all’interno del pianeta è il cieco concetto mentale di minaccia e avversità che l’uomo scarica nei confronti di queste creature. Tuttavia arriva un momento in cui il desiderio di potere dell’uomo – la vera causa inconscia per cui si decide di vedere il male in ciò che in realtà non lo è – diviene talmente saturo e traboccante da spingere il dio notturno della foresta a spazzare via, con una folata di vento, ogni sua costruzione, ogni suo avere, ogni suo singolo brandello di dignità, ripristinando infine il vuoto dei prati verdeggianti accostati ai dolci sospiri del vento e al canticchiare degli insetti.
Vita e morte fanno dunque parte di un unico ciclo continuo ed inestinguibile. E il senso di assurdità che proviamo di fronte a una simile presa di coscienza viene affievolito dalla natura ignota e sognante di ogni singolo istante che Miyazaki ci lascia assorbire all’interno delle sue opere.
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