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La moda ecosostenibile

da 10 Dic 2022Presente0 commenti

A inizio novembre, si è tenuta in Egitto la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2022, nota come COP 27. A parte la decisione conclusiva di istituire un fondo per i danni causati dal cambiamento climatico destinato ai Paesi in via di sviluppo, non sono stati compiuti passi particolarmente significativi per ridurre le emissioni di gas serra. A questo proposito la ministra federale degli affari esteri tedesca, Anna Lena Bareback, ha parlato di ostruzionismo da parte di «un’alleanza di nazioni ricche di petrolio e grandi emettitori». 

Di fronte alla situazione attuale, governata da grandi potenze disinteressate alla tutela dell’ambiente, il singolo individuo potrebbe quindi sentirsi impotente. Ѐ necessario però che ogni cittadino tenga a mente la responsabilità delle proprie azioni e delle conseguenze catastrofiche che queste comportano.

L’industria della moda, che rappresenta circa il 10 % delle emissioni totali di carbonio, è uno dei settori più inquinanti: il consumismo ha, infatti, portato allo sviluppo della cosiddetta fast fashion, oramai motore dell’industria tessile internazionale. Il termine fa riferimento a un processo di produzione e vendita di capi di abbigliamento a prezzi molto bassi in tempi molto brevi per adattarli ai micro trend (mode passeggere). Tali prodotti vengono realizzati in condizioni che non rispettano né i diritti dei lavoratori, né l’ambiente: ad esempio, secondo una recente inchiesta della reporter Iman Amrani, i dipendenti di Shein, uno dei più celebri siti di abbigliamento fast fashion, vengono pagati meno di 50 centesimi all’ora.

Nonostante l’apparente disinteresse da parte di una grande fetta della popolazione, c’è chi approfondisce le problematiche legate alla fast fashion e prova a cercare una soluzione, per esempio la moda ecosostenibile. Molte aziende, infatti, stanno iniziando a produrre articoli con una minore impronta carbonica e a introdurli sul mercato per offrire ai clienti alternative più sostenibili. 

Sono ormai frequenti etichette come “100% naturale”, “eco jeans” o “eco friendly”. Ma che garanzia abbiamo sull’origine e sulla filiera di produzione di questi articoli? Non è raro che le grandi aziende vengano accusate di greenwashing, (letteralmente “lavaggio in verde”). Il termine fa riferimento a una strategia di marketing adottata da alcune aziende o istituzioni che si dichiarano sostenibili quando in realtà non lo sono.

È noto il caso di H&M, catena di abbigliamento diffusa in quasi tutto il mondo: la sua linea  “Conscious Collection”, realizzata, secondo ciò che ha dichiarato il brand, per almeno il 50 % da risorse sostenibili, è stata recentemente accusata dalla studentessa di marketing Chelsea Commodore di greenwashing

Per confermare la validità di questo progetto, H&M ha usato l’Higg Index, un indice per misurare l’impatto ambientale e sociale delle industrie tessili sviluppato dalla Sustainable Apparel Coalition. La strategia dell’azienda è stata semplice: se l’Higg Index riportava un numero come -30% (ciò significa che il prodotto usava il 30% dell’acqua in più del solito), H&M ignorava il segno meno e riportava un consumo del 30% in meno dell’acqua. Dopo l’accusa di Commodore, l’azienda ha rimosso i punteggi Higg (probabilmente per evitare il controllo dei dati).

Ma perché tutto questo? Il greenwashing è una strategia di marketing finalizzata ad attirare i clienti attenti alla sostenibilità, sempre più numerosi e considerati dalle aziende come consumatori ideali. I capi ‘apparentemente’ più sostenibili prodotti da H&M sono stati infatti messi in vendita a prezzi decisamente più alti proprio per attrarre quella parte di clienti disposti a investire su di essi. 

Qual è dunque la responsabilità del cittadino rispetto all’industria tessile? 

Se si ha la disponibilità economica, è possibile trovare molti brand attenti alla sostenibilità dei loro prodotti, certificata ufficialmente. Stella McCartney, ad esempio, è stato uno dei primi brand a interessarsi a queste tematiche, portando avanti da più di vent’anni collezioni cruelty free e adoperando materiali alternativi non inquinanti. Esemplificativa è l’iconica Falabella bag, borsa lanciata nel 2010 e rappresentativa del suo marchio, realizzata totalmente in ecopelle. 

Bisogna però stare attenti a questo termine, poiché viene spesso utilizzato in maniera impropria per ingannare i consumatori meno consapevoli. Nella legge n. 8 del 14 gennaio 2013 l’ecopelle viene definita come vera pelle di origine animale che ha subito un processo di lavorazione a basso impatto ambientale. Nei primi anni Novanta però per ecopelle veniva inteso un materiale artificiale simile alla pelle prodotto con polimeri sintetici derivati dal petrolio e quindi assolutamente non ecologici. Non è raro che alcuni brand continuino a classificare questi materiali inquinanti con il termine ecopelle in un tentativo di greenwashing per favorirne la vendita. 

Un’alternativa più economica al fast fashion  sono i thrift stores. I negozi che vendono abiti di seconda mano, come i mercatini, spesso sottovalutati o visti con uno sguardo sprezzante, sono infatti adatti a qualunque tipo di persona, dalla più semplice alla più stravagante, e sono il modo migliore per ridare vita a capi non più usati, sia vendendo che acquistando.

Un esempio di questi centri è Humana Vintage, una catena di negozi di seconda mano presente in moltissimi Paesi del mondo (la Francia, per esempio, secondo le ultime statistiche di YouGov ha il primato per diverse possibilità di compravendita di abiti usati e/o ecologici); altri esempi possono essere i mercatini allestiti da associazioni di volontariato come la Caritas. 

Incluso nella scelta etica c’è il corretto approccio all’azione del comprare: la quantità è importante quando si va a fare shopping, specialmente in un mondo sempre più consumistico e basato sull’usa e getta. È dunque necessario porsi alcune domande prima di acquistare nuovi prodotti: «Mi serve davvero?», «Lo userò mai?», «Lo prendo perché mi piace o perché costa poco?». I capi prodotti dalla fast fashion inoltre sono realizzati spesso con materiali scadenti destinati a rovinarsi in poco tempo per spingere l’acquirente, attirato dai bassi prezzi, a comprarne di nuovi. A lungo termine risulta quindi più vantaggioso investire su capi di buona qualità che durano nel tempo. 

Tutte queste piccole azioni quotidiane garantiscono un mondo più ecosostenibile, limitando al minimo lo sfruttamento dell’ambiente. Per ristabilire l’equilibrio naturale dell’ambiente su cui l’uomo ha negativamente influito è necessario pensare maggiormente prima di agire. 

In questo articolo abbiamo esposto diversi modi per essere ecosostenibili anche nello shopping e ci auguriamo che giorno per giorno ognuno di noi diventi sempre più responsabile e consapevole delle sue scelte. 

Inoltre, vogliamo tutti indossare capi di un buon tessuto e non derivanti dal petrolio, giusto?

Emma Foraboschi, Oliwia Perczyńska e Gilda Torri

Emma Foraboschi

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